Destra e sinistra, ha ancora un senso?

La vecchia distinzione tra destra e sinistra oggi non ha più molto senso. La vera distinzione, caso mai, è tra chi si rifà al pensiero socialista e chi si ispira al pensiero liberale. Una scelta di campo che il PRI ha fatto agli albori della sua storia, e continua a distinguerlo. Il dibattito sul senso della distinzione destra-sinistra lanciato da Italico Santoro su questo giornale ha riscosso, a giusta ragione, notevole interesse e fatto emergere spunti preziosi. La maggior parte degli amici che mi hanno preceduto hanno, con modalità diverse, messo in rilievo un dato innegabile: a fronte di un panorama politico sempre più complesso e sfaccettato, oggi la tradizionale divisione tra destra e sinistra ha sempre meno senso. Identificare la destra con la conservazione e la sinistra con il progresso significa poco: anche perché, tanto per cominciare, bisognerebbe vedere che tipo di istituzioni, quale orientamento politico si vuole conservare o mutare. E si tratta di un esercizio che può avere esiti paradossali e faceti: tra Breznev e Gorbaciov, chi era di destra e chi di sinistra? E fra Margaret Thatcher e Harold Wilson? Naturalmente, c’è chi considera Breznev (come del resto Stalin) di destra, ma francamente mi sembra un po’ forzato. Insomma, situare la frontiera destra-sinistra sulla linea che separa la continuità dalla discontinuità è sicuramente fuorviante.

Una distinzione superata dai tempi

Del resto, forse non è male ricordare che le definizioni di “destra” e “sinistra” nascono, addirittura, con gli Stati Generali del 1789, alla vigilia della Rivoluzione Francese. Tempi piuttosto remoti, che ben poco hanno a che vedere con i nostri. Peraltro, personalmente non credo che il tramonto delle nozioni di “destra” e “sinistra”, che ormai darei per assodato, comporti automaticamente una rinuncia alla politica. La tentazione di legittimare i governi, o addirittura i regimi, con considerazioni puramente tecniche è più antica di quanto non si pensi.

In un interessante saggio, Giuseppe Galasso fa risalire questa scelta addirittura all’Impero napoleonico: un’esperienza politica che, non a caso, segnava una forte discontinuità sia rispetto al passato prossimo (la Rivoluzione), sia rispetto a quello più remoto (il Regno di Francia). Secondo Galasso, Napoleone fu il primo governante a scegliere di legittimarsi con l’efficacità. In altre parole, l’imperatore non pretendeva di essere stato scelto da Dio, come i re di Francia, né dal popolo, come i leader della Rivoluzione: semplicemente, giustificava la sua permanenza al potere con la capacità di sapere ciò che occorreva fare per il bene del paese, e di farlo senza preoccuparsi delle ideologie, in maniera, per così dire, neutrale. Insomma, Napoleone si presentava come il primo “governo tecnico” della storia.

Ma è davvero possibile governare in modo neutrale? È davvero possibile gestire la cosa pubblica in base a indici puramente tecnici? Secondo me, no. E penso che tutte le persone che seguono questo giornale saranno d’accordo.

L'illusione del governo tecnico

Non esiste mai un unico modo per raggiungere un risultato. Del resto, vediamo tutti i giorni che persino le aziende - che in fondo perseguono obiettivi semplici, definiti e quantificabili - adottano strategie differenti. Anzi, per usare il termine più in voga nel mondo del marketing, seguono politiche differenti. Alla fine, quindi, questa parola tanto demonizzata di questi tempi esce dalla porta per rientrare dalla finestra. Perché? Molto semplicemente, perché la politica - intesa non come semplice gestione del day by day, ma come capacità di individuare e perseguire grandi disegni - rappresenta una dimensione irrinunciabile dell’essere umano. E fingere che non esista significa mentire, più o meno scientemente, a noi stessi. Anche l’antipolitica è un modo di fare politica. Ciò detto, torniamo al problema di fondo. Posto che la politica esiste, posto che le ideologie, in quanto visioni del mondo, esistono, è necessario distinguerle. Se non altro, per capirci.

Destra e sinistra, siamo tutti d’accordo, sono termini ormai privi di significato. Tony Blair era di sinistra. Nicolas Sarkozy, che si prefigge obiettivi molto simili ai suoi, è di destra. È chiaro che una discussione impostata su queste basi non ci porterà a nulla. Liberalismo vs. socialismo Esiste però un’altra distinzione, a mio avviso molto più fondata, che possiamo considerare ancora attuale: la distinzione fra le due grandi famiglie politiche del XIX e del XX secolo, il liberalismo e il socialismo. Contrariamente alla destra e alla sinistra, questa non è una catalogazione futile o vaga. Siamo di fronte a idee ben strutturate e consolidate, basate sul pensiero di grandi filosofi e che nel corso del tempo sono state oggetto di analisi profonde. Ma, soprattutto, parliamo di ideologie (nel senso nobile e non settario del termine) tra loro alternative, che presuppongono due differenti visioni dell’uomo e della società.

Naturalmente, ognuna delle due grandi famiglie si è ramificata, a volte in modo imprevisto e spesso un po’ aberrante. Dal socialismo sono discesi lo stalinismo, il maoismo e i Khmer rossi (ma anche, non dimentichiamolo, la socialdemocrazia scandinava). Il liberalismo ha avuto derive meno sanguinose, ma non per questo meno devianti: valga l’esempio dei teocon o degli anarco-capitalisti americani.

Qual è lo spartiacque tra queste due grandi concezioni del mondo? Senza pretendere di affermare qualcosa di nuovo, credo che la differenza fondamentale consista nel diverso modo d’intendere il ruolo dello stato.

Per i socialisti, a qualunque sottofamiglia appartengano, lo stato ha e deve avere un ruolo centrale e interventista. Tutto, dall’economia all’educazione, dalla cultura alla previdenza, deve passare dall’apparato statale, e preferibilmente essere gestito direttamente dallo stato. Per i liberali, la questione si pone in termini opposti. Lo stato deve avere fondamentalmente il compito di garantire i diritti fondamentali del cittadino assicurando che la libertà di tutti sia rispettata. In questo ambito può ovviamente esercitare un ruolo correttivo nei confronti delle dinamiche sociali ritenute incompatibili con i diritti generali - pensiamo alle politiche antidiscriminatorie, o agli interventi tesi a garantire la concorrenza - ma idealmente non dovrebbe mai sovrapporsi alla società civile. Se assumiamo come vero, nella sua forzata schematicità, questo punto di partenza, credo che noi repubblicani non avremo incertezze su come collocarci, né sulle scelte di campo che dobbiamo e dovremo compiere.

L’adesione all’eurogruppo ELDR, in questo contesto, assume un valore che va al di là delle scelte parlamentari e che ci permette di riallacciarci alle nostre radici più profonde. Mantenere un profilo autenticamente liberale in un contesto politico come l’attuale non è facile. Ma questa è la sfida che ci compete, e che ci caratterizza come punto di riferimento di un’area d’opinione che, pur tra mille incertezze e contraddizioni, si va lentamente ricomponendo.