L’amministrazione locale e i cittadini

 

Impegnarsi nelle amministrazioni locali significa farsi carico di un passaggio particolarmente delicato: l'Ente locale è il livello istituzionale più vicino al cittadino, e quello da cui il cittadino aspetta risposte precise. Ma lavorare nelle amministrazioni locali non vuol dire solo occuparsi del day by day o appiattirsi su una logica burocratica. Per amministrare con efficacia, è indispensabile avere un progetto politico e perseguirlo con coerenza.

L’Italia è il paese dei mille campanili e delle mille capitali, si sa. Anche per questo, probabilmente, l’amministrazione locale rappresenta uno snodo centrale per il cittadino: istintivamente, il Comune è il primo interlocutore istituzionale a cui si rivolge e a cui chiede una risposta, anche a prescindere dalle effettive competenze dell’Ente. Il cittadino si aspetta molto dal proprio Comune. A volte, anche più di quanto il Comune non sia in grado di dare.

Ma al cittadino medio sfuggono – per quanto i sindaci si affannino a spiegarli – i meccanismi che definiscono le competenze e i ruoli tra diversi livelli istituzionali, e tra enti locali e amministrazione centrale. Anche per questo, esercitare il ruolo di amministratore locale significa farsi carico di un passaggio particolarmente delicato. Volenti o nolenti, si diventa il terminale delle aspettative dei cittadini a un livello in cui la presenza (o l’assenza) del consenso è palpabile e immediata.

Ma in che misura, oggi, un consigliere – o al limite, un assessore – può farsi interprete delle esigenze dei cittadini?

Il meccanismo elettorale in vigore dal 1993 premia soprattutto la rappresentatività del sindaco. Legittimato dal voto popolare, detentore di una maggioranza garantita e confortevole, il sindaco può avere, e spesso ha, la tentazione di governare in maniera un po’ monocratica, riducendo al minimo i momenti di confronto con il consiglio.

Naturalmente questa situazione, che può essere più o meno accentuata a seconda della personalità e delle caratteristiche caratteriali del sindaco, non si è creata per caso. Ha alle spalle il mito dell’efficientismo di stampo aziendalistico e il vento dell’antipolitica, presente nel nostro Paese già molti anni prima degli exploits di Grillo. Ostentare di governare senza i partiti è un modo per strizzare l’occhio alla parte dell’elettorato più critica nei confronti della politica tradizionale, e poco importa se può venarsi di populismo. Ad alcuni può sembrare una strategia di comunicazione vincente.

Ma quanto di tutto questo è vero, e quanto semplice fumo negli occhi? E, soprattutto, in che misura questa evoluzione rappresenta un miglioramento per i cittadini?

Intanto, iniziamo a puntualizzare due fatti inconfutabili. Il primo, è che amministrare una città, specialmente se si tratta di una grande area metropolitana, è un processo complesso che richiede un elevato livello di motivazione e compartecipazione da parte di tutti i soggetti coinvolti nell’attuazione delle decisioni, partendo dagli assessori per finire con i vigili. Ora, come si fa a ottenere un livello di collaborazione che vada oltre il minimo sindacale? Persino i più incalliti aziendalisti lo sanno: occorre proporre degli obiettivi condivisi, offrire una visione comune. In breve, creare consenso. Ossia, fare politica.

Il secondo punto deriva dal precedente. Come sa chiunque abbia esperienza d’amministrazione, non esistono scelte neutrali, decisioni puramente tecniche derivanti da dati assolutamente oggettivi: c’è sempre più di un modo per affrontare qualunque situazione, c’è sempre più di un’opzione. C’è sempre un margine decisionale lasciato alla discrezionalità. E questo è, appunto, lo spazio della politica.

La politica resta uno snodo fondamentale nella vita di un’amministrazione locale, un passaggio necessario e imprescindibile. Pretendere di amministrare una realtà locale prescindendo dalla politica è, oltre che privo di senso, scorretto nei confronti dei cittadini. Perché nasconde dietro l’alibi di scelte tecniche quello che in realtà è (e non può essere diversamente) un progetto politico. Non sarebbe più giusto dichiararlo, e perfezionarlo con un confronto democratico nelle sedi istituzionali preposte?

Dirò la verità: per chi, come me, è impegnato nella politica locale da ormai più di trent’anni, vedere che i consigli comunali non sono più il luogo delle grandi discussioni politiche è motivo di amarezza. Non per altro: è un altro momento di dibattito che viene a mancare, e questo, a mio avviso, è sempre un fenomeno negativo. Ciò detto, tornando alla domanda iniziale, vale ancora la pena di impegnarsi nelle amministrazioni locali? La risposta è: certamente sì. E vorrei aggiungere, con entusiasmo.

Al di là della situazione che ho descritto, che è giusto conoscere, esistono comunque gli spazi per operare al servizio della cittadinanza, intercettare le domande della società civile, lavorare per migliorare la qualità delle scelte. Certo, siamo sotto la luce dei riflettori meno di prima: mentre un tempo era scontato che il consiglio elaborasse le linee programmatiche della politica locale, oggi un consigliere che tiene ad avere un ruolo politico deve impegnarsi di più in prima persona, trovare il modo per dialogare con l’opinione pubblica, perseguire – magari anche in modo solitario – le battaglie in cui crede.

A prescindere dalle apparenze, la nostra funzione fondamentale non è cambiata: siamo sempre chiamati a raccogliere le istanze dei cittadini, a mediare, a proporre degli obiettivi che riteniamo possano essere condivisi nell’interesse comune e a trovare il modo di dare, attraverso le istituzioni, le risposte che riteniamo adeguate. In breve, siamo chiamati a fare politica. E scusate se è poco.