Altiero Spinelli, da Ventotene agli Stati Uniti d’Europa

 

A cent'anni dalla nascita, il messaggio di Altiero Spinelli resta sempre vivo e attuale. E continua a rappresentare uno stimolo per chi ritiene che la prospettiva dell'identità europea sia l'unica risposta possibile alle sfide del Terzo Millennio. Celebrare il centenario di un politico significa prima di tutto verificare in che misura il suo pensiero ha influenzato la realtà in cui viviamo, che seguito hanno avuto le sue idee, fino a che punto il suo messaggio è stato compreso e portato avanti da chi l’ha seguito.

Nel caso di Altiero Spinelli, queste domande non possono avere una risposta univoca. Certamente il mondo attuale ha – sia pur con ritardo e non senza ostacoli – capito la validità del suo programma: l’Europa lo riconosce come uno dei suoi massimi padri fondatori, e nessuno osa mettere in dubbio la lucidità e la lungimiranza delle sue aspirazioni. Certo, se ripensiamo al clima e al tono del dibattito politico all’inizio degli anni Quaranta, il Manifesto di Ventotene ci colpisce per la sua straordinaria capacità di guardare avanti. È come se Spinelli, scrivendolo, desse già per scontato l’esito della guerra, la fine delle dittature, la nascita e la stabilizzazione di un sistema politico basato in larga misura sulla socialdemocrazia. E, dando tutto questo per assodato, appunto, dichiarasse che le vere sfide sono altrove, che la risposta alle esigenze di pace, sviluppo e giustizia del mondo va cercata altrove.

Rileggiamo uno dei punti centrali del Manifesto. «La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».

Certamente, non era facile in quegli anni fare una scelta di campo così radicale e innovativa. La nuova prospettiva scelta da Spinelli (che collocava nel campo della reazione anche i partiti più “di sinistra”, nella misura in cui non riuscivano a porsi su un piano realmente sovrannazionale) risultava spiazzante soprattutto per chi riteneva di essere all’avanguardia. Non a caso, vi fu chi, come Sandro Pertini, ritirò la firma dal documento trovandolo incompatibile con le posizioni del proprio partito. Oggi, eccettuando solo piccole frange minoritarie, tutti i partiti e tutti i movimenti politici si proclamano con convinzione europeisti; ma pochi anni prima del Manifesto di Ventotene, non dimentichiamolo, il Comintern propugnava la parola d’ordine del “socialismo in un solo paese”: un’idea che affascinò intere generazioni di rivoluzionari e di intellettuali.

È chiara l’abissale differenza che separa Spinelli – che pure proveniva da un’esperienza comunista – dalla maggior parte dei suoi coetanei. Peraltro, per quanto idealista, Spinelli sapeva affrontare la realtà in modo molto pragmatico, come prova il suo impegno nel dopoguerra. L’atteggiamento di Spinelli si distingue da quello dei federalisti che, prima di lui, si erano limitati a denunziare la crisi storica dello stato nazionale, collocando la realizzazione della Federazione europea in un futuro indeterminato.

Questo federalisti, al contrario di Spinelli, non si erano posti l’obiettivo di elaborare un programma di azione preciso e non avevano rinunciato a impegnarsi prima di tutto sul fronte delle lotte interne, democratiche o socialiste. Spinelli invece, convinto che la Federazione europea, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sarebbe diventata un obiettivo concreto della lotta politica, si rese conto del fatto che si apriva uno spiraglio per la lotta federalista in quanto tale. Denunciò pertanto, senza esitazione, i limiti dell’approccio funzionalista all’unificazione europea, e l’illusione di poter raggiungere la federazione senza passare attraverso una rinuncia alla sovranità da parte degli Stati nazionali. Un tema forte, che toccava un nervo sensibile di tutti governi.

L’azione di Spinelli mirò sin dall’inizio a sfruttare le contraddizioni che si manifestano nel mettere in comune le politiche nazionali. Al metodo comunitario seguito da Jean Monnet, Spinelli contrappose il metodo costituente, consapevole del fatto che, se da un lato bisogna far accettare agli Stati un trattato in base al quale essi si dichiarano disposti a cedere parte della loro sovranità a favore e di un governo sovranazionale, dall’altro lato è necessario far partecipare il popolo europeo alla definizione di una costituzione che stabilisca la forma e i compiti della nuova unione fra Stati. Su questa posizione, difesa e sostenuta per tutta la vita, Spinelli riescì, nel 1984, a portare l’intero Parlamento europeo.

Ma, arrivati a questo punto, sconfiniamo dalla storia alla cronaca: i problemi legati all’approvazione della Costituzione europea sono più che mai oggetto di dibattito. Parallelamente, si moltiplicano le critiche nei confronti dell’Unione, prima messa sotto accusa per i presunti effetti perversi della moneta comune, e oggi per l’insicurezza generata dall’afflusso di migranti provenienti dagli Stati appena ammessi. Considerando che la maggior parte delle critiche giungono dal basso (e infatti se ne fanno interpreti, nei vari Paesi, soprattutto partiti e movimenti d’ispirazione populistica), sembrerebbe che siamo ancora molto lontani dal sogno di un’Europa voluta e sostenuta dai popoli.

Ciò significa che dobbiamo relegare Spinelli tra gli utopisti? Personalmente, credo di no. Ritengo che la forza innovativa del pensiero di Spinelli resti intatta, e che al di là di tutto le sue intuizioni continuino a disegnare un cammino percorribile e realistico. Credo anche che l’Europa abbia contribuito in termini molto concreti a migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini. Limitandoci all’Italia, e lasciando da parte le polemiche strumentali sull’euro, l’esigenza di rispettare i parametri europei ha sicuramente contribuito a spezzare la spirale viziosa che si era creata tra indebitamento e spesa pubblica. Non ne siamo usciti, certo: ma se non altro, abbiamo preso coscienza del problema. Al tempo stesso, il fatto di essere inseriti in un contesto economico più ampio e articolato ha consentito, anche a un Paese strutturalmente fragile come il nostro, di superare con conseguenze meno gravi del temuto crisi nate all’interno (pensiamo ai crac Cirio e Parmalat) o provenienti dall’estero, come i bond argentini o i mutui subprime.

Certo, è facile accusare l’Unione di essere una costruzione tecnocratica, fredda, lontana dai cittadini. Ma lo è prima di tutto perché, fino ad oggi, ben poche forze politiche si sono davvero impegnate nel compito di spiegare che cos’è – e soprattutto, che cosa può diventare – l’Europa. Purtroppo, nella maggior parte dei Paesi i partiti continuano a utilizzare l’Europa come uno strumento di propaganda al servizio della lotta politica interna: lo abbiamo visto in Francia in occasione del referendum del 2005, utilizzato per pronunciarsi su Chirac, più che sul Trattato. Sotto questo aspetto, dobbiamo ammetterlo con rammarico, la situazione non è cambiata radicalmente rispetto ai tempi di Spinelli: l’ideale europeo ha conquistato e convinto le élites, ma resta ancora troppo lontano dalle masse. Anche perché, torno a ripeterlo, sono realmente poche le forze politiche capaci di ampliare i loro orizzonti oltre i confini nazionali. E sì che gli spunti – per non dire le emergenze – non mancherebbero: dalla politica energetica, ormai diventata un tema centrale del Terzo Millennio, al difficile equilibrio multipolare che si va disegnando nel mondo, dalle minacce del terrorismo globale alle spinte centrifughe che minano i vecchi Stati nazionali.

A maggior ragione, resta attuale il nocciolo centrale del pensiero di Spinelli, la sua sfida a confrontarsi su un terreno che non è più quello delle «vecchie assurdità». Grazie alla nostra cultura di matrice liberale, noi repubblicani siamo sempre stati in sintonia con l’Europa: il federalismo e la sussidiarietà sono concetti per noi familiari. Tanto familiari che, a volte, tendiamo a darli per scontati.

Forse – e questo è lo stimolo più forte che può venirci da una rilettura di Spinelli – dovremmo tutti impegnarci di più nel difficile lavoro di creare consenso attorno all’idea d’Europa, sprovincializzando il dibattito politico e iniziando davvero a costruire quell’Europa dei popoli cui Spinelli aspirava. È la risposta migliore che possiamo dare alla sfide del nuovo Millennio, l’unica che possa avere un senso e una prospettiva.